M.A.D. – MondoAgricolturaDonna – 6) Sirleaf Ellen Johnson

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« Le donne lavorano di più e sono più oneste, hanno meno occasioni di lasciarsi corrompere. Gli uomini hanno più distrazioni: hanno più di una moglie e spesso delle concubine. »”

E’ un frammento dal lungo articolo su Sierleaf  pubblicato sul numero  882 di febbraio 2011  Internazionale dal giornalista statunitense Daniel Bergner , tradotto  da Marina Astrologo. Lei è il presidente della Liberia, paese fondato da neri americani liberi,  dal 2006 al suo secondo mandato. La sua vita è stata, in un certo qual senso, privilegiata: ha studiato in patria nella capitale  fino a 17 anni (cosa già non molto facile in Africa negli anni ’40 dello scorso secolo) e poi, dopo il matrimonio a 17 anni, ha seguito il marito all’estero terminando gli studi  con una laurea in economia ad Harvard.  Nel 1980 quando Samuel Doe, primo presidente liberiano indigeno, fece il suo colpo di stato, Sirleaf era  ministro delle finanze. Doe uccise il presidente William Tolbert e fece giustiziare tredici ministri sotto gli occhi di centinaia di persone radunate sulla spiaggia della capitale. Dopo aver denunciato la corruzione imperante lascò la Liberia per l’esilio,  tornando quando Doe dichiarò di voler effettuare regolari elezioni. Non fu una grande idea perchè venne subito imprigionata, minacciata di stupro e di morte, ma  liberata quasi subito per le pressioni interne e  rifugiandosi  nuovamente negli Stati Uniti.E’ vincitrice del Premio Franklin Delano Roosevelt per la Libertà di Parola, 1988, del Premio Ralph Bunche per la leadership internazionale, del Grand Commander Star dell’Africa Redemption of Liberia, del Premio della leadership per l’Africa per la Fine Sostenibile della Fame 2006 ed, infine, del Premio Nobel per la pace nel 2011 assieme e con la stessa motivazione di Tawakkul Karman e Leimah Roberta Gbowee.  “La presidente sta facendo uscire la Liberia dalle tenebre”, ha dichiarato Thomas-Greenfield nel 2011 ma, a distanza di nove anni di presidenza ininterrotta nel suo paese, non ha ancora eliminato la corruzione anche se ha di molto diminuito la disoccupazione, passata dall’85% a “solo” il 50%, puntando sull’istruzione, soprattutto quella femminile.

 

M.A.D. – MondoAgricolturaDonna – 5) Rigoberta Menchù Tum

i la unica lucha que se pierde es la que se abandona!

l’unica lotta che si perde è quella che si abbandona!”

 

La sua storia inizia nel 1952 nel piccolo villaggio dei Quiché, ultimi eredi della cultura indios, situato nel nord ovest dell’altopiano guatemalteco. Lì Rigoberta cresce in grande povertà ma ricca di valori tramandati oralmente di generazione in generazione: l’amore per la terra, lo stretto legame con la natura, gli animali, il sole. C’è una saggezza armonica nel tutto che viene assorbita già da quando il bambino è nel grembo materno.Nella sua autobiografia,“Mi chiamo Rigoberta Menchú”, scritta dall’antropologa Elisabeth Burgos (ed. Giunti) descrive come le donne, passeggiando per la foresta, parlino al figlio che sta per nascere, di tutto ciò che è la natura:“Di questa natura che ci circonda non dovrai mai abusare e dovrai vivere la tua vita allo stesso modo che la vivo io”.
Una vita dura, improntata sul lavoro della terra, sulla semina del mais, sacro sostentamento dell’uomo. “Il mais è al centro di tutto – racconta – è la nostra cultura”. Una cultura che rispetta l’unico Dio, il sole, che è il cuore del cielo. Questo libro la farà arrivare al  Nobel per la Pace del 1992, donna depositaria della cultura degli indios, una dei pochi indigeni sopravvissuti al genocidio in Guatemala. Alcune polemiche sono sorte per lei, a motivo di un dossier pubblicato dal New York Times a cura del reporter Larry Rohrter in riferimento ad un libro dell’antropologoDavid Stoll, ma Rigoberta continua impavida a portare in giro per il mondo la sua lotta contro razzismo, ingiustizie e strapotere dei poteri forti nei confronti di ogni minoranza. Essa, infatti dice “Finché vivrò, il Premio Nobel che ho ricevuto avrà un senso”. (da un’intervista di Nicoletta Pasqualini)

rigoberta 5 “Este mundo no va a cambiar a menos que estemos dispuestos a cambiar nosotros mismos.  Questo mondo non cambierà a meno che non siamo disposti a cambiare noi stessi” Rigoberta Menchù


M.A.D. – MondoAgricolturaDonna – 4)Malala Yousafzai

« Non mi importa di dovermi sedere sul pavimento a scuola. Tutto ciò che voglio è istruzione. E non ho paura di nessuno. »”

E’ un frammento di un’intervista di questa impavida ragazza pakistana (nata a Mingora il 12 luglio 1997) che, a 17 anni appena compiuti, ha già sperimentato ciò che a molti di noi non sarebbe possibile in una vita. A 13 anni cura un blog per la BBC documentando l’ascesa nello Swat dei talebani; a 15 (il 9 ottobre 2012) viene  gravemente colpita al volto da alcuni terroristi  saliti sul pulman che la portava a casa da scuola: l’attentato è stato rivendicato da Ihsanullah Ihsan, portavoce dei talebani sostenendo che la ragazza “è il simbolo degli infedeli e dell’oscenità”; viene curata a Peshawar e poi trasferita a Birmingham dove tuttora vive, in un ospedale che si era offerto di curarla; il 12/7/2013 il giorno del suo 16′ compleanno, parla nel palazzo di vetro delle  Nazioni Unite indossando lo scialle appartenuto a Benazir Bhutto e lanciando un appello all’istruzione dei bambini di tutto il mondo;   sempre nel 2013  riceve il Premio Sakharov per la libertà di pensiero, consegnatole a Strasburgo in occasione della sessione plenaria dell’Unione Europea; infine a 17 anni il 10 ottobre di quest’anno, riceve il Nobel per la pace assieme a all’attivista indiano Kailash Satyarthi, diventando la più giovane vincitrice di un premio Nobel. La motivazione del Comitato per il Nobel norvegese è stata: “per la loro lotta contro la sopraffazione dei bambini e dei giovani e per il diritto di tutti i bambini all’istruzione”-

“Cari fratelli e sorelle, ci rendiamo conto dell’importanza della luce quando vediamo le tenebre. Ci rendiamo conto dell’importanza della nostra voce quando ci mettono a tacere. Allo stesso modo, quando eravamo in Swat, nel Nord del Pakistan, abbiamo capito l’importanza delle penne e dei libri quando abbiamo visto le armi. Il saggio proverbio “La penna è più potente della spada” dice la verità. Gli estremisti hanno paura dei libri e delle penne. Il potere dell’educazione li spaventa. Hanno paura delle donne. Il potere della voce delle donne li spaventa…..Ed è per questo uccidono le insegnanti donne….. Cerchiamo quindi di condurre una gloriosa lotta contro l’analfabetismo, la povertà e il terrorismo, dobbiamo imbracciare i libri e le penne, sono le armi più potenti. Un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo. L’istruzione è l’unica soluzione. L’istruzione è la prima cosa. Grazie”. (Malala – stralci dell’intervento alle Nazioni Unite del 12/7/2013 – traduzione di Fulvio Scaglione)

M.A.D. – MondoAgricolturaDonna – 3) Leimah Roberta Gbowee

“Grande sia il nostro potere” –

“Mighty our power” in originale, è il racconto autobiografico della vita  di Leihmah Roberta Gbowee. Nata a Monrovia nel 1972 ha studiato alla Eastern M. University in Virginia. Già a 17 anni iniziò le sue battaglie in prima linea contro la guerra, che la portarono nel 2002 a fondare “Women of Liberia Mass Action for Peace”, insieme a Confort Freeman. Il Movimento univa donne sia cristiane che musulmane nella lotta non violenta, e il loro carattere pacifico era evidente mente significato negli abiti bianchi costantemente indossati dalle attiviste.

“Prega affinchè il diavolo se ne torni all’inferno” è il titolo del pluripremiato docu-film del 2008 (originale “Pray the devil back to hell”), che racconta la storia del movimento fondato da  Leimah. Il suo lavoro in campo umanitario ha dato un grande contributo a far terminare la Seconda guerra civile liberiana nel 2003, e ha spianato la strada all’elezione dell’attuale Presidente della Liberia,  Ellen Johnson Sirleaf. Insieme a lei e alla Karman nel 2010, la Gbowee vinse il premio Nobel per la Pace.

M.A.D. – MondoAgricolturaDonna – 2) Vandana Shiva

VANDANA SHIVA IMM

“Vivere con meno è il nostro risarcimento” Vandana Shiva

Chi è Vandana Shiva? Nasce in India nel 1952 in un in una città dell’Uttar Pradesh, nelll’India del Nord-est. Il padre è una guardia forestale e la madre una maestra di scuola che diventerà contadina dopo la sanguinosa guerra di partizione tra India e Pakistan nel 1947/48. La casa dei genitori è frequentata da intellettuali e discepoli di Gandhi. Una delle  frasi del Mahatma si imprime a fondo in lei: “Nel mondo c’è quanto basta per le necessità dell’uomo, ma non per le sue avidità”. La sua infanzia la trascorre tra le foreste del Rajahstan e la fattoria gestita dalla madre.Studia nel collegio cattolico di Dehra Dun e, dopo il diploma in fisica, in Canada all’università di Guelph, dove consegue la laurea in filosofia della scienza e, successivamente, il dottorato sui concetti filosofici della meccanica quantistica del Western Ontario. Vandana torna in India e lavora a Bangalore come ricercatrice in politiche agricole ed ambientali. Nel 1982 torna a Dehra Dun dove crea una propria Fondazione eco-scientifico-tecnologica, proprio contemporaneamente alla diffusione del movimento Chipko (donne contro le distruzioni delle foreste da cui traggono nutrimento). Nell’Uttar Pradesh sono evidenti, infatto, i danni provocati da fertilizzanti, varietà selezionate di semi, aumento delle coltivazioni a monocultura, degrado di suolo e di acqua, espropriazioni “facili” ai danni, soprattutto delle donne. Nel 1991 fonda  Navdanya (in hindi “nove semi”), il movimento che con altri sorti in tutto il mondo è presente al vertice di Rio de Janeiro nel 1992 dal quale nascono i primi accordi internazionali per la protezione della biodiversità e per la repressione della biopirateria. Quei “nove semi” rappresentano le nove coltivazioni da cui dipendono la sicurezza e l’autonomia alimentare dell’India. Il nome, dice Vandana Shiva, le è venuto in mente osservando un contadino che in un unico pezzo di terreno aveva piantato nove tipi di semi diversi. Oggi Navdanya conta circa 70 mila membri, donne per lo più, che praticano l’agricoltura organica in 16 stati del paese, una rete di 65 “banche dei semi” che conservano circa 6.000 varietà autoctone, e la Bija Vidyapeeth o Scuola del Seme che insegna a “vivere in modo sostenibile”.
Vince nel 1993, per il suo enorme impegno a favore delle popolazioni dell’India e le sue lotte per l’ambiente, il RIGHT LIVEHOOD AWARD ovvero il Premio al corretto sostentamento, creato nel 1980 allo scopo di affiancare al tradizionale Premio Nobel un riconoscimento agli sforzi compiuti da persone e gruppi, in particolare del Sud del mondo, per una società migliore e un’economia più giusta. Da quel momento la difesa dei semi autoctoni contro le multinazionali che cercano di rivendicare come loro “proprietà intellettuale” varietà agricole selezionate nei secoli da comunità locali, diventa il maggior impegno di Vandana Shiva. Attualmente è consulente per le politiche agricole di numerosi governi, in Asia e in Europa (anche della regione Toscana). Le sue battaglie più famose sono sono state contro le multinazionali che avevano ottenuto i brevetti del neem, del riso Basmati e del frumento Hap Nal. Questi ultimi due sono anche prodotti d’esportazione e paradossalmente, se i brevetti non fossero stati revocati, gli agricoltori indiani avrebbero dovuto pagare royalties alle società americane RiceTec e Monsanto, su ogni partita venduta all’estero. Attualmente è vicepresidente di Slow Food e collabora con la rivista di Legambiente, oltre ad aver scritto numerosi saggi. Le resta da vincere la lotta contro gli Ogm e più in generale contro le monoculture e i loro oligopoli:

SEC IMM VANDANA SHIVA     «Oggi siamo testimoni di una concentrazione senza precedenti del controllo del sistema agroalimentare internazionale in cui convergono essenzialmente tre aspetti: il controllo dei semi, il controllo dell’industria chimica, il controllo delle innovazioni biotecnologiche attraverso il sistema dei brevetti. Il diritto al cibo, la libertà di disporre del cibo è una libertà per la quale la gente dovrà lottare come ha lottato per il diritto al voto. Solo che non vivi o muori sulla base del diritto al voto, ma vivi o muori sulla base del rifiuto del diritto di disporre di cibo». nel settembre 2011 l’India ha denunciato la Monsanto per bioterrorismo

M.A.D. – MondoAgricolturaDonna – 1) Tawakkul Karman

Karman 2013

30 settembre 2011, si riunisce il comitato per l’assegnazione dei Nobel 2011 per la Pace. 241 le candidature tra le quali 53 associazioni: si parla dei blogger della primavera araba, di Julian Assange (scandalo Wikileaks), di Daniel Baremboim, di Helmut Kohl e invece … il 7 ottobre tre nomi,  due donne africane ed una mediorientale. La motivazione sarà “For their non-violent struggle for the safety of women and  for women’s rights to full participation in peace-building work”  ovvero “per il la loro lotta non violenta in favore della sicurezza delle donne e del loro diritto a partecipare al processo di pace”.

Cominciamo a conoscere la più giovane e meno famosa delle tre vincitrici,  Tawakkul Karman di nazionalità Yemenita.

‘‘Guardate all’Egitto, vinceremo’‘. Con questo slogan  ha guidato la rivolta nel suo paese, con un giorno di collera il 3 febbraio 2011, ispirandosi alla primavera arabe di piazza Tahrir al Cairo e prima ancora di Avenue Bourghiba a Tunisi.  Aveva appena 32 anni, tanti quanti il potere del presidente yemenita Ali Abdallah Saleh. Tawakkul ha tre figli ed anche molto coraggio: è divenuta la leader della protesta al femminile al regime, nel 2004 si tolse il niqab (velo semi-integrale) alla Conferenza sui diritti umani e da allora ha sempre esortato le altre donne e le attiviste a levarselo.  Giornalista e fondatrice dell’associazione “Giornaliste senza catene” è militante nel partito Al Islah, primo gruppo di opposizione. Nel gennaio precedente alla proclamazione del Nobel è stata arrestata dalle autorità, costrette poi al suo rilascio dalla  protesta di migliaia di persone che manifestavano in strada in suo sostegno. “E’ un premio per me – dichiarava a caldo la Karman – ma soprattutto per le donne dello Yemen. E’ la prova della vittoria della rivoluzione pacifica yemenita: è riuscita a guadagnare l’ammirazione e il rispetto della comunità internazionale”. Il tutto in una nazione dove le donne non votano, nè guidano, nè possono dormire sole in un albergo.

La storia dello Yemen (radice semitica che indica la mano destra oppure il sud) si identifica anzitutto con la storia dei Sabei. Di fatto l’agricoltura irrigata e la cultura urbana dei Sabei (la mitica Saba) ebbero il loro inizio qui. Dato che l’acqua non era disponibile in quantità sufficiente durante tutto l’arco dell’anno, era necessario aiutarsi con vari sistemi di dighe e di chiuse, per raccogliere e conservare quella piovana durante la stagione delle piogge. Furono tali sistemi di irrigazione a far fiorire questa terra ed i suoi popoli. Lo Yemen agricolo di oggigiorno ospita 6 progetti di sviluppo agricolo con i  finanziamenti dell’IFAD (Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo) che, dal 2010, sono stati concentrati sulla creazione di opportunità economiche e occupazionali per le popolazioni rurali, mirando alla partecipazione diretta delle comunità coinvolte e, soprattutto, a garantire maggior potere decisionale alle donne, promuovendo la reale parità tra i sessi.

 

M.A.D.- MondoAgricolturaDonna

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Un nuovo appuntamento per voi che seguite il blog del Boschetto delle Lepri. Le storie, tante storie di donne che ogni giorno si battono contro  lo strapotere sovrannazionale e con quel tipo di globalizzazione che non migliora il nostro mondo né, tantomeno, la qualità di vita dei suoi abitanti.

Parleremo di Sirleaf, Gbowee e Karman (le tre vincitrici del Nobel per la Pace del 2011), di Vandana Shiva (e delle sue battaglie contro OGM e semi arricchiti come il Golden Rice), di Suseelamma (Action Aid con lo slogan “Dite terra e le donne si uniranno”) e di tante altre coraggiose che amano la loro terra oltre ad amare la nostra Terra.

M.A.D., a presto per voi.